giovedì 28 febbraio 2013

Persone / Mara Santangelo, la tennista che imprecava per il dolore (1)

Medjugorje è anche la storia di tante persone. Una di queste è Mara Santangelo, che oggi ha 31 anni (vedi foto), e che da quando ne aveva 12 ha fatto parte delle nazionali di tennis, gareggiando come professionista fino al 2010. E ciò nonostante i dolori che doveva sopportare per una rara malformazione al piede sinistro per la quale le era stato consigliato di smettere. Ma lei aveva promesso alla madre, morta quando aveva 16 anni, che un giorno sarebbe arrivata a giocare a Wimbledon, il tempio del tennis. E quando, dopo aver vinto diversi tornei, sarà costretta a smettere, la sua strada la porterà a Medjugorje. Ora ha pubblicato un libro e tra pochi giorni sarà ospite in una radio. La ascolteremo (Radio InBlu, mercoledì 6 marzo alle ore 11.10 circa in streaming su http://www2.radioinblu.it/radioinblu/s2magazine/index1.jsp?idPagina=34 , a Roma Fm 96.3) e ve la proporremo in un prossimo post. Intanto pubblichiamo alcuni stralci del suo libro, tratti da un capitolo reso disponibile dall'autrice, uscito da pochi giorni…



Mara Santangelo da “Te lo prometto” Ediz. Piemme, Milano 2013

"Penombra. Pareti spoglie. Un bagno triste. Chiudo la porta dietro di me. Abbasso in fretta il coperchio del water. Mi siedo. Sono nel panico. Non riesco a pensare... Prima di tornare in campo posso solo agire… Vorrei abbandonarmi, restare lì con la testa fra le mani, ma non posso. Ho ancora pochi secondi, perché il tempo è inesorabile. Tre minuti soltanto dalla richiesta del break, per uscire dal campo, andare in bagno, e poi rientrarci come da regolamento. Tutto in un fiato.
Quattro mura fredde accolgono la mia sofferenza. Siamo a Wimbledon, eppure potrei essere in un qualunque anonimo bagno...Il dolore è già scritto dentro me e brividi rapidi si allungano percorrendo ogni tratto del mio corpo. Penetrandomi l’anima. Abbasso lo sguardo, slaccio frettolosamente la scarpa sinistra, quella del piede che più mi tormenta. Ho paura di ciò che vedrò. Sfilo il calzino. Sangue. Non ho tempo per rifarmi il tape (fasciatura antidolorifica). Una smorfia di rabbia. Lacrime di dolore mi rigano il volto... Il dolore sfianca, stende, tortura e nello sport è come una continua doccia gelata che, senza riparo, colpisce la pelle.

Non posso stare dritta, come vorrei. Fitte lancinanti mi feriscono. Ho abbandonato il campo accompagnata da uno steward che mi ha lasciata sulla soglia del bagno. “Match finito”, gli ho letto negli occhi senza bisogno che parlasse. Sola. Questa è la mia vita... Dio mio! Dio mio! Una voce, che fatico a riconoscere, fuoriesce dalla mia gola. Ho imprecato contro Dio senza quasi rendermene conto. Non ho tempo per rimettere a posto la fasciatura al piede dolorante. Solo un pugno di attimi per un tentativo disperato. La rabbia mi invade come febbre. Dio, perché mi fai questo? Perché hai permesso che arrivassi fin qui, sul campo centrale di Wimbledon, se non posso lottare ad armi pari per vincere? Mi hai condannata a soffrire sin dalla nascita! Maledizione! Com’è possibile? Dannati piedi! Odio tutto questo! Ogni passo è una fitta di dolore, come farò?  Rispondimi, Cristo, se ci sei! Fanculo a tutto, fanculo al mondo, fanculo a questo dolore e a questa vita che sono costretta a vivere! Cazzo!

Lacrime bruciano sulle mie guance. Alzo la testa e mi guardo nello specchio. L’angoscia mi deforma i lineamenti. Lo steward bussa alla porta per sollecitarmi a uscire. Mi bagno con l’acqua fredda il viso, i polsi, il collo. Lacrime scorrono. È il 22 giugno del 2005. Wimbledon, campo centrale. Il giorno che attendo da sempre è finalmente arrivato. Il sogno a occhi aperti si avvera … Sto giocando benissimo, sono carica, sto realizzando il sogno di una vita... Seduta sulla sua panchina, divisa da me solo dal seggiolino dell’arbitro, c’è la mia avversaria: Serena Williams. Possente, muscolosa, forte. Una delle poche giocatrici al mondo il cui curriculum è in grado di mettere k.o. prima ancora che l’incontro abbia inizio. È lì, proprio accanto a me, acclamata dal pubblico, in rigoroso bianco, che maggiormente esalta il nero della sua pelle…
Osservo la mia avversaria, si muove con la libertà che a me non è concessa, stringo gli occhi, recupero lucidità e vigore... Mi accorgo che Serena è in grande difficoltà. Proprio lei, una forza della natura! Un talento straordinario, una muscolatura massiccia che la rende potente più del doppio di me. Avevo visto tante tenniste di successo annullate dalla sua potenza e dalla suggestione che è capace di infondere. Eppure sono lì a tenerle testa, non temo i suoi colpi.

Quella mattina, arrivando… vidi le tende in cui molti tifosi si erano accampati per comprare i ticket alla prima apertura delle biglietterie. Il cuore iniziò a battermi forte nel petto per l’emozione. Quella gente era lì anche per me, Mara Santangelo. Per quella bambina, ora divenuta una donna che, da Latina, passando per il Trentino, Verona, Bolzano, Roma, aveva girato il mondo e lottato, sudato, amato il tennis con la forza della passione più autentica, vivendo per una promessa…Prima di entrare ripassiamo gli obiettivi mentre mi fascio entrambi i piedi con i tape, per alleviare il dolore che durante il match, di minuto in minuto, diventerà lancinante. Li guardo, li sfioro delicatamente quasi volessi pregarli di non abbandonarmi, li accarezzo con gli occhi. I miei piedi, indissolubilmente legati al dolore. Sono nata con una rara malformazione. Nel piede destro sesamoide bipartito. Nel piede sinistro sesamoide tripartito. Ossicini che fanno male sfregandosi tra loro, mentre il ripetuto poggiarli con forza per terra, nell’inevitabile movimento del gioco, rende la sofferenza atroce. Ricordo il verdetto medico, una vera e propria condanna.

Ero solo un’adolescente, e i primi dolori, inspiegabili, cominciarono a tormentare allenamenti e partite. Con l’intensità che cresceva dopo gli sforzi più prolungati. Ero già al 250° posto nel mondo e dentro di me rispondevo solo alla promessa fatta a mia madre: diventare una tennista professionista e giocare sul campo centrale di Wimbledon. Quella promessa era segnata ancora più indelebilmente dentro me dal 23 novembre del 1997. Ho sedici anni e lei è nata in cielo. Un incidente inspiegabile, impossibile da accettare. Dovevo essere in auto con mamma quella sera, avrebbe dovuto accompagnarmi a Bolzano dove mi allenavo. Ma il destino ha scelto altro per me. Lei è scivolata sull’asfalto reso viscido dai primi freddi, planando oltre una curva non protetta dal guardrail, nel vuoto, per oltre cento metri. …

Giorno dopo giorno la sofferenza misteriosa ai piedi cresceva, finché non divenne un grave ostacolo sul campo da gioco. Fu così che decisi di indagare. Una diagnosi che non lasciava speranze al mio futuro di atleta arrivò per bocca di un medico dai modi sbrigativi: «È già un miracolo che quella malformazione non ti abbia fermata molto tempo fa», mi disse. «Non è ipotizzabile che tu possa giocare a livello professionisticoEppure non mi arresi. Quel giorno, ricevuta la diagnosi, segnò l’inizio di una battaglia ancora più accanita, combattuta in nome dell’antica promessa fatta a te, con l’amore capace di alleviare la sofferenza. Consultai altri specialisti, mi affidai a plantari sempre più innovativi, a terapie per disinfiammare i piedi prima e dopo i match, pur di arrivare dove sono oggi. Sul campo centrale di Wimbledon. …

Quella partita volgeva a mio favore. Avevo vinto il primo set 6/2 trovando nel pubblico una sorprendente complicità. Ero molto carica, sicura, mi sentivo padrona del campo, imponevo il mio gioco alla Williams come se fosse un’avversaria ordinaria. Cercavo gli angoli, la facevo trottare, mi costruivo il punto per venire a chiuderlo a rete. Mi è sempre piaciuto archiviare così i miei scambi, mi dava una energia particolare. Le mie palle per Serena erano spiazzanti, con il talento riuscivo a competere con la sua forza. Lei sembrava incerta e nervosa… Il secondo set era in bilico, finché Serena alzò improvvisamente il ritmo e, in uno spostamento laterale, avvertii una fitta lancinante. Strinsi forte il manico della racchetta. Non devo cedere alla sofferenza. Devo resistere!

Cercai di concentrarmi solo sul gioco per provare a sentire meno dolore, ma era impossibile. Iniziai a subire diversi aces, le sue pistolettate brucianti. Riuscii a tenere il set aperto sino al 4/3, grazie alla strategia di abbreviare il più possibile gli scambi, in modo da evitare troppi sforzi. Ma gradualmente persi quota, su quel rettangolo fatto di gloria tennistica. Dal clamore e dall’emozione di un match in pugno, mi ritrovai rinchiusa nel bagno per riprendere fiato, dopo aver perso 6/3 il secondo set… Il dolore cronico è spietato, tortura, e spesso ho gridato contro il cielo quando diventava più acuto. Cambio i calzini sudati e rientro in campo assieme a Serena. Com’è diverso l’animo con cui riprendiamo la partita! La vedo sicura tanto quanto io mi sento sconfitta… Cedo al dolore. Match finito. 2/6, 6/3, 6/2 Addio a tutto."

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